
A dicembre è uscito per Giulio Perrone Editore Senzanome, il primo romanzo di Mirfet Piccolo. Senzanome è la storia di una donna che, dall’infanzia fino all’età adulta, ricostruisce tutto il suo difficile percorso di crescita. Una crescita avvenuta precipitosamente, senza ripari, tenerezze e guide che facessero sentire al sicuro. Senza la possibilità di poter allentare le difese e sentirsi davvero protetta, fuori pericolo.
Restare senza nome e non nominare
All’interno del libro la protagonista non viene mai nominata; rimane senza nome, insieme a tutte le altre persone che fanno parte della sua vita o le gravitano intorno. A definire lei e le altre figure concorrono una serie di aggettivi e locuzioni attribuiti a un nome comune che evidenziano particolari aspetti. La protagonista è, a seconda della fase di vita o del momento della giornata in cui si trovi, “la bambina con la testa rasata”, “la bambina con il padre che è in giro per il mondo”, “la ragazza che parla poco”, “la donna che ha paura della notte”. Uno degli effetti generati è la sensazione che non ci sia nome che giunga a proteggere e delimitare da violazioni altrui l’identità di questa bambina-ragazza-donna. Di volta in volta si trova a fronteggiare da sola stati d’animo, pressioni psicologiche e azioni violente da parte di chi la dovrebbe tutelare. Non trova tenerezza nelle parole della madre e non c’è il suo consenso nei gesti degli uomini che popolano la sua infanzia. Chi la dovrebbe chiamare teneramente con il suo nome, la insulta e la ingiuria; chi la dovrebbe chiamare con il suo nome per guidarla e proteggerla, la spaventa e la insidia. E così il nome scompare lasciando il posto una bambina, una ragazza e infine una donna senzanome con un’identità da costruire, da rendere libera e felice.

Non-casa, non-stanza
Molti dei paragrafi dedicati all’infanzia della donna senzanome si concludono con una domanda che, a seconda degli anni della bambina in quel momento, recita così: “Dieci anni quanti sono, sono tanti o pochi?”, “Dieci anni quasi undici, quanti sono? Sono tanti o pochi?”. E dentro queste domande vi sono altri mille quesiti da porsi: “Come si può restare davvero bambini dopo aver subito una violenza?”, “Come si fa a dieci anni a comunicare con gli altri, se gli altri ti ingannano?”, “Quanti anni sono davvero dieci anni se dentro se ne sentono cento?”. Alla luce di queste domande, ci si rende conto che molto di quello che circonda la bambina è invertito rispetto a ciò che il diritto a un’infanzia felice richiederebbe per lei. È costretta a vivere per un lungo periodo in una “non stanza” e una “non-casa”, è circondata da pareti che “sono schegge fuori controllo”, e vive con una madre dai denti marci che la picchia con un oggetto che dovrebbe restare inerte e innocuo. Anche l’identità degli oggetti e degli spazi e delle persone appare quindi invertita, spostata, compromessa tanto da essere rappresentati attraverso la loro negazione. La bambina però desidera, spera e “vuole anche lei una casa fresca dove ogni cosa ha un posto felice, e vuole la tavola dove scambiare ricordi e racconti, e il vassoio e le merendine, tutte le merendine che contengono una sorpresa da collezionare”. La bambina insomma vuole avere davvero i 10 anni di un’infanzia felice da poter nominare contro ogni suo contrario.