
Il 6 ottobre 2022 è uscito per la Giulio Perrone Editore l’ultimo libro di Mark Bould, il cui titolo originale è The Anthropocene Unconscious: Climate Catastrophe Culture. La traduzione italiana del libro, che prende il titolo L’Antropocene inconscio. La cultura del disastro climatico, è stata affidata a Marta Olivi.
Come letteratura e fiction parlano di disastro climatico senza parlare di disastro climatico
Contenuto nella collana Le nuove onde e diviso in 9 capitoli, il saggio si fonda sull’idea che L’Antropocene rappresenti l’inconscio dell’arte, dello spettacolo e della letteratura del nostro tempo. In sostanza, Mark Bould si pone le seguenti domande e articola, attraverso i suoi studi e le sue ricerche, delle risposte all’interno del saggio:
Un testo deve proprio mostrare maree che si alzano in un mondo sempre più arido […], per essere considerato un libro sul cambiamento climatico? Deve proprio […] seguire passo passo la tempesta che avanza? Deve per forza includere scene in cui dei tizi in camice bianco si dicono cose che già sanno, ma che il lettore potrebbe non sapere, sui gas serra, i grafici a mazza da hockey, i ghiacciai che di ritirano, le calotte di ghiaccio che si restringono, la decelerazione della corrente del Golfo, il rilascio del metano artico dei clatrati e via dicendo? La comparsa dei cambiamenti climatici ambientali deve proprio essere ricondotta esplicitamente alla destabilizzazione del clima […]? Un’opera di fiction deve essere strettamente ed esplicitamente incentrata sul cambiamento climatico per essere fiction sul cambiamento climatico? Non c’è spazio per il simbolico? L’obliquo? Lo straniato?
L’Antropocene inconscio, pag. 14-15
Quello che Mark Bould vuole analizzare è quindi il modo in cui gli effetti e gli scenari che caratterizzano il disastro climatico in atto, pur non comparendo in modo del tutto esplicito in testi letterari, film e serie TV, vadano comunque a incunearsi in queste opere. Sono moltissimi gli esempi, i casi studio, e le opere citati che aiutano il lettore a muoversi nel testo e a comprendere la sua tesi. L’obiettivo del saggio è insomma, da un lato, mettere in luce come tutto ciò che viene sottaciuto sia comunque in grado di emergere e raccontare la crisi climatica e, dall’altro, ricercare tutte quelle “cose che il testo è costretto a dire per dire ciò che vuole dire”.

Ma cos’è l’Antropocene?
È necessario dedicare un piccolo paragrafo alla comprensione di cosa sia a grandi linee l’Antropocene. Nel corso del testo, Bould ne analizza l’etimologia e ne dà una prima chiara definizione:
[l’Antropocene] definisce il periodo in cui l’attività umana ha sconvolto situazioni e processi geologici importanti, e/o in cui si possono rivelare tracce dell’attività umana nella stratificazione geologica. L’Antropocene incoscio, pag. 19
Nella parte successiva a questa definizione, Bould spiega invece come dal termine Antropocene siano nate moltissime varianti tese a coglierne gli aspetti più caratteristici, a seconda delle differenti prospettive sociali, etiche, politiche ed economiche adottate (solo per fare qualche esempio dal termine Antropocene sono nati: Capitalocene, Maschiocene, Misantropocene e Piantagionocene). Il ricercatore sottolinea che questa proliferazione di definizioni interno al termine Antropocene deriva da tutte le riflessioni che, a partire da una questione di tecnica stratigrafica, si sono sviluppate nell’ambito della cultura. Questo ha anche portato studiosi e ricercatori a collocare l’inizio dell’Antropocene in diverse fasi della storia a seconda della prospettiva con cui veniva indagato. Si va da Clark che ne colloca l’inizio 1,6 milioni di anni fa quando l’Homo erectus usò la prima volta il fuoco, passando per Raupach e Canadell che lo collocano mezzo milione di anni fa quando si cominciò a ricavare energia dalla combustione, fino ad arrivare ad Antropoceni più brevi, come quello che si fa cominciare con il test nucleare Trinity del 1945. Seguendo il testo, si capirà l’importanza, anche da un punto di vista etico, delle diverse collocazioni temporali dell’Antropocene, derivanti da sguardi diversi sul mondo e sull’attività umana.
Il rimosso torna sempre
Bould ci espone la sua tesi partendo da un testo di grandissimo successo, divenuto un punto di riferimento per scienziati, intellettuali e artisti, La grande cecità: perché non vediamo il cambiamento climatico? di Amitav Ghosh. La tesi esposta da Ghosh nel suo testo è che l’arte e la letteratura abbiano completamente ignorato il disastro climatico in atto, provocando una profonda frattura tra cultura e natura. Bould prende come punto di partenza questo testo di riferimento, intraprendendo però una strada opposta: nonostante letteratura, cinema e tv non abbiamo la minima idea di parlare di Antropocene, l’Antropocene trova comunque il modo di annidarvisi. Quello che da Ghosh viene considerato come un colpevole silenzio, da Bould è considerata afasia espressiva. Se si accetta l’idea che tutti i testi culturali riguardino, pur inconsapevolmente, il cambiamento climatico, – ci dice Bould – “essi sono completamente aperti”. Insomma, nonostante il tentativo di parlare d’altro, di restare sull’esperienza individuale e di rimuovere il disastro climatico, il rimosso nei testi culturali trova sempre il modo di tornare a galla.